Continuano le domande agli autori di Vaporteppa.
Oggi Alessandro Scalzo, autore del romanzo steampunk Caligo, ci racconta come trova le idee per le sue opere, la stessa domanda a cui ha risposto Giulia Besa nel precedente appuntamento.
Alessandro, come trovi le idee per le tue storie?
Dove trovare le idee per scrivere le proprie storie?
Stiamo parlando di fantascienza e science-fantasy, per cui cominciamo subito dal what if…? Esiste un immenso calderone da cui attingere, che comprende tutto il filone fanta-archeologico alla Peter Kolosimo/Roberto Giacobbo: qualcuno ha già fatto lo sforzo di creare un mondo di fantasia che ha una certa coerenza, per quanto improbabile, quindi perché non sfruttarlo? Idem per la fantastoria e la fantapolitica fatte di misteri e complotti che vanno dalle favolose armi segrete naziste fino ai Rettiliani, e anche l’interpretazione fantasiosa letterale dei testi sacri delle religioni offre materiale a non finire: è tutta ottima fantascienza, da cui attingere a man bassa.
Oggi abbiamo un’idea abbastanza precisa di cosa è scienza e cosa no, o perlomeno questa è la nostra impressione, ma fino a un secolo e mezzo fa il confine non era così ben tracciato. Nel 1865 avevamo già capito tutto del campo elettromagnetico, ma ai primi del ‘900 la teoria atomica era appunto solo una teoria, e molto lontana dal modello attuale. Basta fare l’esperimento mentale di mettersi in quel punto di vista, di ragionare come un curioso di (pseudo)scienze dell’Ottocento, e far finta che sia tutto vero, e il mondo che ne verrà fuori potrà essere molto bizzarro e colorito agli occhi dei contemporanei.
Per esempio, un aspetto che può confondere nella lettura dei testi sacri come la Bibbia o il Corano è che non si capisce mai quando qualcosa, che sia un animale o un cibo o una certa pratica, è dichiarato puro o impuro. Puro in senso spirituale, o batteriologico? La risposta è che a quei tempi non si conosceva la differenza. L’esistenza dei batteri sarà nota solo parecchi secoli più tardi, per cui davvero la distinzione non può essere applicabile. Ecco, questo è già un approccio fantasy al tema delle malattie, dei contagi e delle pestilenze. Non è necessario crederci davvero a tutta quella roba, anzi, si rischia proprio di fare la figura dei fessi per dirla tutta, senza contare che un approccio cialtronesco alla materia non può che giovare alla causa del –punk.
Il 1912 di Caligo si svolge in un mondo così, dove lo zampino extraterrestre nella preistoria dell’evoluzione umana è un dato di fatto, e dove l’archeologia è un’attività strategica praticata soprattutto dai militari perché nelle tombe dimenticate – terrestri, lunari o marziane – si rischia di trovarci non solo bellissimi affreschi e maschere funerarie in oro, ma anche bombe atomiche e robot da combattimento. L’universo è naturalmente un multiverso, e gli ingegneri hanno una conoscenza empirica che permette loro di sparare capsule attraverso portali interdimensionali, pur senza capire bene i fenomeni, così come i Romani costruivano cupole che stanno in piedi ancora oggi pur senza conoscere il calcolo differenziale. Il tutto, naturalmente, in condizioni di incertezza tali da far sembrare i primi lanci dei cosmonauti sovietici roba conforme alla Legge 626 sulla sicurezza del lavoro.
Abbiamo sistemato il mondo narrativo, ma una storia per essere tale deve essere centrata su dei protagonisti, che ne sono il motore, così come le loro motivazioni ne sono il carburante. Un consiglio che posso dare subito è quello di dare un volto ai propri personaggi. Come nella “tecnica dell’iceberg” di cui parla Hemingway, può anche darsi che non darete mai una descrizione fisica dei vostri personaggi, ma il fatto di averli ben chiari in mente vi aiuterà a renderli più vivi e vitali, meglio caratterizzati in quei piccoli dettagli che servono a renderli reali. Di nuovo, il materiale a cui ispirarsi non manca.
Quasi tutti i personaggi di Caligo sono ispirati a persone esistenti, personaggi famosi o persone che ho conosciuto, come il Professor Schiffer, che ricorda un mio professore di Ingegneria e anche un Papa ora in pensione. Il padre di Barbara Ann, il colonnello Axelrod, ha la faccia di David Bowie, e la Dottoressa Elsa Bramanti è l’attrice Dyanne Thorne, mentre il detective Ermes Paganini non può essere altri che Peter Cushing, e il signor Luciano è preso da una pubblicità del tonno in scatola.
Guardatevi intorno, e vi accorgerete che siete già circondati da centinaia di persone vere, famose o meno, che con qualche aggiustamento non chiedono di meglio che entrare a far parte delle vostre storie, se non altro dando un volto e una voce ai vostri personaggi, e dare un volto e una voce ai personaggi sarà il primo passo per dare ai vostri personaggi un carattere.
Ora, quello che vi serve è un po’ di sana irrazionalità. Se gli esseri umani fossero in prevalenza razionali, non ci sarebbe storia, e soprattutto non ci sarebbero conflitti, mentre il conflitto è il sale della drammaturgia. La personalità di ogni individuo è fatta di molti livelli, da quello animale a quelli culturali e sociali, che più che collaborare in maniera organica fanno a calci e sputi fra loro, e questo ci va benissimo, perché crea conflitto anche a livello interiore. Naturalmente non tutti i comportamenti irrazionali vanno bene, bisogna imparare a distinguere quelli credibili da quelli che risulterebbero artefatti e posticci. La lettura di un paio di libri come Ciao… e poi? Psicologia del destino umano e A che gioco giochiamo? dello psicologo Eric Berne può essere utilissima sotto questo punto di vista, con una raccomandazione: il lettore potrebbe essere meno tollerante nei confronti di personaggi che si comportano in modo irrazionale di quanto potrebbe esserlo nella vita reale, per cui non bisogna calcare troppo la mano in tal senso.
Infine, l’umorismo e l’ironia. Un modo per trattare con ironia alcuni aspetti del proprio mondo immaginario è ispirarsi a delle storture del mondo reale, portarle all’eccesso e poi considerarle come normali all’interno del mondo narrativo. Nel mondo di Caligo, per fare un esempio, ogni sorta di abuso psicofisico è considerato normale all’interno di convitti e collegi gestiti da religiosi, e gli stessi preti e suore hanno tutti meno spiritualità di una betoniera, come del resto è normale che sia.
Bene, direi che per ora è tutto, e spero che questi due o tre suggerimenti possano essere utili. Alla prossima!
Grazie Alessandro!
Avete qualche domanda per Alessandro Scalzo? Se gli sarà possibile rispondere qui nei commenti e se avrà il tempo per farlo, lo farà. Altrimenti ogni buona domanda si potrà sempre mettere da parte per futuri articoli, se dovesse richiedere una risposta troppo laboriosa o lunga da scrivere! 😉
23 comments
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Bell’articolo!
Premetto che sto leggendo Caligo in questi giorni (impegni permettendo) e avrei un paio di domande da porre all’autore:
– Perché la prima persona? cioè cosa l’ha spinta verso questa scelta?
tornando all’articolo:
– Non ho ben capito la parte dell’articolo che parla di irrazionalità, cioè cosa intende per comportamento irrazionale? no ho ben chiaro.
Ciao Michele, diamoci del tu 🙂
Riguardo alla prima persona, la risposta è che si tratta più che altro di una scelta stilistica, in quanto non c’è differenza con la terza persona se il Punto di Vista è ben fisso sul personaggio, e se non ci sono altri personaggi Punto di Vista nella storia. Inoltre, la prima persona permette di caratterizzare più facilmente la voce del personaggio, quindi possiamo dire che c’è una buona ragione per usarla, e nessuna controindicazione. La questione sarebbe diversa se ci fosse più di un personaggio Punto di Vista: in questo caso sarebbe lo stesso possibile usare la prima persona, passando da una voce narrante all’altra, ma suonerebbe più strano. Non cambia nulla, invece, sotto l’aspetto della narrazione: che sia in prima persona, o che sia in terza, è bene che il punto di vista sia ben centrato su un solo personaggio nella stessa scena, per favorire l’identificazione del lettore e l’immersione sensoriale nella scena. L’idea che la terza persona renda più liberi con l’uso del narratore onnisciente è un retaggio del passato, per non parlare della cattiva narrativa dove il concetto di Punto di Vista è proprio ignoto all’autore.
La seconda domanda è molto più difficile! Con un approccio ingegneristico, dovremmo definire una funzione di fitness nella vita di un personaggio, cioè una funzione che esprime il suo benessere tramite un unico valore numerico (ammesso che sia possibile) e dire che ogni comportamento che non va nella direzione di massimizzare quel valore è un comportamento irrazionale… ma senza farla tanto lunga, diciamo che un esempio di irrazionalità sono quei comportamenti che non sono legati al qui e ora, ma che affondano le radici nel passato, magari nell’infanzia. L’Analisi Transazionale tratta ad esempio il problema delle ingiunzioni genitoriali, come potrebbe essere quella sii un perdente. In questo caso avremmo un personaggio che si pone obiettivi ambiziosi solo per il gusto di fallire a un passo dal traguardo, è tutto ciò non sarebbe legato alla sua vita presente ma a un’ingiunzione che gli è stata trasmessa da un genitore, o da entrambi, nei suoi primi anni di vita. È chiaro che se il mondo fosse molto razionale, abitato perlopiù da individui orientati a ottenere il massimo benessere per tutti, e privi di un fardello di pulsioni distruttive e autodistruttive, ci sarebbe ben poco spazio per il conflitto, e quindi per la narrativa in genere.
Author
Sulla prima persona c’è da aggiungere che ha altri vantaggi tecnici.
Se uno teme di ripetere troppo spesso il nome del protagonista, grazie alla prima persona il problema è azzerato. Soprattutto utile nelle scene rapide in cui si passa dal protagonista ad altri di continuo: togliere il nome del protagonista (diventa “io” sottinteso) è un enorme vantaggio.
Riduce senza sforzo anche la tentazione di usare i verbi di percezione (vedo, sento, guardo ecc.) che, se in numero più che minimale, sono tra i principali indicatori di una scrittura poco coinvolgente. A parte la sciocchezza del dire che “si vedono le cose che si vedono” e “sentono le cose che si sentono” (ma va? non l’avevo capito!), aggiungere quei verbi ci distanzia dalla percezione (letteralmente: più parole da leggere) e compromette l’eleganza del testo. Un testo è elegante quando ogni parola serve: parole vuote, inutili, non sensoriali, la rovinano.
Scrivere in terza persona richiede, se si vuole fare davvero immersione narrativa, di pensare e immaginare tutto in prima persona da dentro il personaggio. Chi immagina le scene col personaggio che fa cose, il personaggio che pensa cose ecc. ha già fallito a priori nel ragionare la scena: si deve DIVENTARE il personaggio, se ne deve assumere completamente la mentalità, e si deve pensare cosa “io vedo”, “io faccio”, “io provo”… non “lui”, “io”.
Solo così si può capire la scena davvero. E capire anche che spesso sarà vuota, sarà povera perché nel calarsi nel ruolo del personaggio si scoprirà di non sapere troppe cose sui suoi gusti, su come vive, su cosa ha in casa, su come funziona il suo lavoro ecc. Ragionando la scena in terza persona, in cui si impone dall’alto a un “lui” le cose invece di viverle nella sua pelle, nemmeno ci accorgeremmo moltissimi di questi dettagli mancanti e che possono dare spunti per scene più interessanti e vivide di quelle inizialmente immaginate.
È normale che gli autori a un certo punto smettano di usare la terza persona, fonte di difficoltà e di problemi di conversione di ciò che hanno immaginato in prima, e adottino direttamente la prima persona, superando l’iniziale scoglio psicologico dello scrivere in modo diverso, senza convertire in terza. Scoglio che un buon autore, come Giuseppe Menconi o Alessandro Scalzo, hanno superato senza problemi in un attimo. È solo psicologico.
In prima ci sono tutti i vantaggi senza i problemi… a patto di sapere cosa uno sta scrivendo. Se uno non ha idee, non ha chiaro ogni dettaglio della scena, ovvero se si è ancora dilettanti, la terza persona salva dal problema: ciò che in prima persona apparirebbe troppo vuoto, non credibile, in terza persona ci appare tollerabile per via del maggior distacco “quasi cinematografico”.
Stesso dicasi di errori nella gestione dell’empatia: in terza persona paiono meno pesanti che in prima persona. Ma l’obiettivo di un autore non dovrebbe essere di scrivere così-così impegnandosi poco, magari perché non ha simpatia per lo studio drammaturgico di come presentare in modo efficiente personaggi poco digeribili ai lettori (i “Casi Macbeth”, come li chiamo io). 🙂
Forse torneremo in futuro con un articolo dedicato alla questione.
In futuro porteremo un romanzo breve con un’ottima terza persona che pare una prima persona. Ma nel suo caso le ripetizioni del nome non erano un problema, sapeva già gestirle, per cui la terza persona non gli ha richiesto più difficoltà della prima. 🙂
Grazie Duca e Alessandro per la spiegazione sulla prima persona, voglio provare a scrivere qualcosa usandola per vedere come viene. Alessandro credo di aver capito la questione dell’irrazionalità, grazie mille!
Ciao Duca volevo chiederti se potevi farmi un esempio di cattiva terza persona è di buona terza persona.
Perché devo dire che la preferisco alla prima persona.
Poi volevo chiederti se ci sono manuali di qualità in italiano che trattano l’argomento. Grazie
Complimenti ad Alessandro per il romanzo.
Ciao a tutti.
Author
Per quelli buoni guarda Piloti e Nobiltà e La Gatta degli Haiku, e poi aspetta quello che ti ho indicato e che deve ancora uscire. Per quelli cattivi è inutile indicarti qualcosa: è zeppo il mondo, ne hai già letti moltissimi e ne leggerai moltissimi.
In italiano gli unici manuali buoni che conosco sono di drammaturgia/strutturazione delle storie. Se avessimo manuali buoni diffusi, avremmo anche tanti opere ben scritte e non servirebbe chiedermi esempi. 😀
Grazie Duca per la risposta, aspetterò con impazienza le prossime uscite. 🙂
Ciao Beppe, un esempio di cattivo uso della terza persona potrebbe essere:
A parte la balordaggine di far parlare un bandito analfabeta come un accademico della Crusca (bonus track), in coda al dialogo ci sono alcune cattive pratiche molto comuni negli autori che hanno studiato molto, ma sui libri sbagliati.
1) Di chi è il punto di vista? Se nella scena ci sono solo banditi analfabeti, chi è che descrive la scena in termini di “interloquì”? L’autore stesso, è chiaro, che è esterno alla scena, il che non contribuisce a una lettura immersiva. Qui l’errore è evidente perché nei pessimi manuali di scrittura c’è scritto che bisogna evitare le ripetizioni con l’uso dei sinonimi, che invece è proprio il marchio a fuoco del dilettante allo sbaraglio.
2) Nei pessimi manuali c’è anche scritto che l’infodump va “nascosto” spalmandolo all’interno del testo, altro tacon pegior del buso. Così ci troviamo a leggere di un personaggio che in teoria dovrebbe essere il protagonista e il punto di vista nella scena (anche perché magari nella scena c’è solo lui), che pensa a sé stesso in termini di “il veterano di mille battaglie dal volto abbronzato solcato di cicatrici” o “l’anziano professore in pensione leggermente curvo, con un passato di pioniere dell’astronomia”. Ora, è chiaro a chiunque che se io penso a me stesso, per me sarò sempre “io” e basta, e difficilmente mi riferirò a me stesso in termini di “l’ingegnere genovese con la barba screziata di grigio”. Anche in terza persona, se io sono il punto di vista in una scena sarò sempre Alessandro e basta, esattamente come in prima persona sarei “io” e basta.
Riguardo ai manuali in italiano, me ne viene in mente uno piuttosto breve (e di qualche anno fa, non so se si trova ancora), che può dare un’infarinatura su diversi aspetti della scrittura, giusto per farsi un’idea di quale sia il punto di partenza: “Smettetela di piangervi addosso: scrivete un best seller”. Il titolo è parecchio frufrù, ma l’autore si è letto parecchi manuali in inglese, e questo è un po’ un sunto.
Grazie Alessandro per la tua risposta davvero utile e divertente. Cercherò di procurarmi il manuale che mi hai consigliato. 🙂
Ho una domanda per il Duca. C’è mai stata la possibilità di una collaborazione, sia come scrittrice o come editor, con Chiara Gamberetta; a parte quella sullo steampunk?
Se posso vorrei chiedere una cosa
leggermenteot. Perché hai scelto vaporteppa? Vorrei anche chiederti come organizzi il tuo lavoro, ti imponi un tot ore, un tot numero di parole?Author
Intendi quella sulla Bizarro Fiction, non steampunk, giusto?
No, niente. A parte concederci una versione modificata per Vaporteppa del suo saggio introduttivo, non ci sono stati altri rapporti tra Vaporteppa e Gamberetta. Non ha nemmeno segnalato la collana sul suo blog, ma l’ha citata in modo positivo nell’intervista apparsa dopo quasi un anno di silenzio qui: http://blog.upspringer.com/it/intervista-a-chiara-gamberetta/
Si, scusa bizzarro fiction, sto leggendo fuoco nella polvere di Lansdale. Mi sono confuso. 🙂
Peccato per la Gamberetta, perché insieme a te, è la persona che più reputo competente nell’ambito narrativo.
Ciao Michele,
riguardo a Vaporteppa, è un po’ improprio parlare di “scelta”. All’idea di pubblicare con un editore avevo rinunciato da anni, una volta constatato che entrare nel giro è da una parte molto difficile, e dall’altra parte forse nemmeno tanto desiderabile. L’ultimo contatto che ho avuto con quel mondo è stato sotto la falsa identità di Amanda, sedicenne non vedente che sarebbe interessata molto a una famosa agente con diversi autori di best-seller nella propria scuderia, se non fosse stato che poi dietro alla sedicenne non vedente c’era un quarantenne appena un po’ presbite a causa dell’età 😀
Ecco, la collana Vaporteppa di Antonio Tombolini Editore non ha niente a che fare con quella specie di girone dantesco, è proprio un altro mondo: un mondo normale dove accadono cose sensate. Caligo nacque come racconto lungo per partecipare fuori concorso al vecchio bando per racconti steampunk di Baionette Librarie, ben prima che nascesse l’ipotesi Vaporteppa. Quando l’idea per questa collana ha preso corpo, mi è sembrato naturale che Caligo diventasse un romanzo per Vaporteppa, e sinceramente non ho mai pensato che potesse essere altro.
Riguardo a come mi organizzo, sarebbe meglio dire come non mi organizzo… ma su questo argomento ci saranno altri articoli a tema.
Ciao!
Ciao Alessandro, ciao Duca! E’ da un po’ che seguo Baionette e Vaporteppa, ma è giunta l’ora di presentarmi 🙂
Complimenti al Duca per il progetto e per questi articoli, che per me sono fonti di conoscenza e di spunti interessanti, e complimenti ad Alessandro (avevo letto tempo fa Marstenheim e mi era piaciuto un casino, appena finisco la matura leggerò anche Caligo! :D). Come avrete intuito sono una giovincella inniorante (magari se mi acceco mi pigliano per pubblicare un high fantasy, o forse no, ormai sono maggiorenne…) e per me leggervi è stimolante, quanto lo sarebbe trovarsi in presenza di Feynman e Einstein per un neolaureato in fisica. Perdonatemi quindi se le mie osservazioni sono trite e ritrite D:
* Riguardo alla terza persona:
Secondo me, oltre ai dettagli della scena (in 3° è più facile scrivere scene inconsistenti e astratte) e all’empatia, la 3° persona pone anche il problema della cadenza dello stile (che coincide in parte con quello dell’empatia). Ho letto alcuni libri in cui l’autore descriveva la scena come se fosse una telecamera. Certo il testo era scorrevole, non c’erano parole astratte né infodump, tutto era descritto in termini concreti, ma ciò non toglie che io mi sentissi a mezz’aria, a osservare il personaggio fare cose, oppure mi sembrasse di ascoltare una radiocronaca. L’autore aveva adottato un linguaggio da sceneggiatura, asettico, “che descrive e basta”, ma secondo me questa è un’interpretazione deteriore dello Show don’t Tell. Alla fine la scrittura è diversa dal cinema. Mi sa di plastica, di falso, soprattutto nei testi in 3° persona in cui il protagonista parla (nei dialoghi) come parlerebbe davvero, ma poi il testo descrittivo è “neutro”…lo trovo straniante, innaturale e brutto. Questo è ancora più acuito quando dovrebbe esserci un cambio di punto di vista ma il testo non dialogico rimane sempre uguale.
A proposito, studiando Verga per la maturità, mi sono imbattuta nel concetto di omologia (formula inerente al soggetto), secondo il quale il soggetto deve essere descritto con il tono e le espressioni che lui stesso adotterebbe, cioè si dà una corrispondenza tra il livello socio-culturale del personaggio e il registro stilistico. Anche in 3° persona tutto dello stile (per esempio i suoni, la scelta delle parole, la struttura della frase), secondo me, dovrebbe dare un’idea dell’interiorità del personaggio. L’ho trovato per esempio in Zodd di Zweilawyer, in cui le parole hanno un suono cupo e aspro, dando l’idea di uno schiacciasassi ahahah, e l’ho apprezzato molto! Quando tutto il testo, anche se in 3° persona, è pervaso dalla personalità del protagonista, compresi errori grammaticali, espressioni dialettali, e magari un’evasività del personaggio su argomenti che l’hanno fatto soffrire e finezze del genere etc etc, sento che l’immersione migliora esponenzialmente. Soprattutto ho la percezione che il testo sia più colorito, più vivo (spero di rendere l’idea ahahah). Ho solo io quest’impressione?
*Un’altra domanda (scusate se sono off-topic…): come ti organizzi con il worldbuilding? Io riesco solo a creare mondi retard senza alcun senso, incollando tecnologie-strutture economiche-rapporti sociali-tradizioni che mi sembra siano carini o fantasiosi ma che non hanno nessuna coerenza e che collasserebbero subito se fossero reali. Non riesco a inventare un sistema economico-sociale soddisfacente, che sia funzionale e credibile, e non riesco a inventare una cultura (religioni, visione del mondo etc) che sia organica, coerente rispetto alla struttura socio-economica. Hai letto qualcosa di economia/sociologia/antropologia? Oppure hai studiato storia? Hai qualche consiglio o qualche lettura per organizzare il worldbuilding? Cerchi di capire come funziona una cultura reale, prima di iniziare a inventarne una fittizia?
Grazie mille per la pazienza e scusate ancora se sono questioni già trattate da qualche parte. Le mie domande probabilmente sono estranee al tema dell’articolo. Non sono molto abituata a commentare in questi casi e non conosco l’etichetta che si usa nel web, quindi se sono stata inappropriata fatemelo notare! Per me è un onore poter commentare qui 😀
Ancora complimenti a entrambi.
Buona giornata! 🙂
Author
Si chiama focalizzazione ed è la norma con qualsiasi punto di vista, in prima o in terza. Non c’è vero punto di vista se non c’è filtraggio psicologico della realtà oggettiva per tramutarla in esperienza soggettiva. Esperienza soggettiva di cui parte sarà senza opinione, apparendo quindi neutra/oggettiva (una sedia che rimane una sedia), e parte avrà l’opinione marchiata a fuoco (un tizio che a prima vista è un “negro straccione”, usando un punto di vista più verso Calderoli che verso la Boldrini). D’altronde non si può avere un’opinione su tutto e le cose di cui il personaggio non ha opinioni ci dicono molto di lui quante quelle su cui ha opinioni.
Se si usano gli occhi del personaggio senza usarne la mente mai (limitandosi ai soli pensieri diretti) non è vero uso del punto di vista, è cattiva scrittura. Non siamo davvero nel punto di vista, siamo con una telecamera che sta in spalla al personaggio (un personaggio di troppo, questa telecamera tenuta attiva da, immagino, un ipotetico fantasmino della narrativa?).
Cattiva scrittura che può scadere in esempi da temino scolastico delle medie, con tutto il linguaggio in perfetto italiano, tutto forbito e corretto (non sia mai che la maestra si arrabbi!), anche quando il punto di vista è quello di un bandito con 85 di QI e una visione della vita che a sembrare l’ISIS progressista. E, in più, se entriamo sulla teoria generale, non è nemmeno possibile scrivere senza usare la mente di qualcuno che scelga i termini… e dato che una telecamera neutra non sceglie un tubo, ecco che ci troviamo a decidere le parola il Narratore che invade la storia. E siamo a due personaggi di troppo: fantasmino con telecamera e Narratore. Si sta facendo affollato.
Di meno è di più: cacciamo fantasmini con telecamere e Narratore, e lasciamo il solo personaggio a vivere la sua storia in modo molto più efficacie.
Scusi Duca, ma la prima persona deve essere usata per un solo POV per tutto il libro, o può essere usata anche con due o tre POV?
Ciao Ket,
il worldbuilding di Caligo non è stato poi una faccenda difficoltosa, perché parliamo in sostanza di una struttura socioeconomica che non si discosta da quella reale di un secolo fa, con un capitalismo industriale che spinge sull’acceleratore del progresso e una rigida divisione in classi aristocrazia/borghesia/proletariato. Nel mio 1912 l’Italia si trova ancora divisa in vari stati, alcuni sotto l’influenza straniera, ma anche qui non è difficile immaginare che qualche intoppo nella storia abbia ritardato i processi che portarono all’unità d’Italia. Per esempio, potrebbe essere che la superiore tecnologia delle nazioni germaniche abbia sconsigliato il piccolo Piemonte dal muovere guerra, lasciando il ruolo di protagoniste sullo scenario italiano (in particolare il Mediterraneo) ad altre potenze tecnologiche come la Gran Bretagna. Ma, nel 1912, le fabbriche piemontesi potrebbero stare lavorando a pieno regime per colmare lo svantaggio e assecondare le mire espansionistiche della monarchia piemontese, anche se con qualche decennio di ritardo, magari solo per non finire schiacciata fra i contendenti. Per le note di costume vale lo stesso discorso che facevo riguardo all’ironia: si possono prendere alcuni aspetti reali di un’epoca e agire un po’ sul potenziometro. Il periodo Liberty era più rilassato nei costumi di quanto lo fosse stato quello Vittoriano, per cui possiamo spingere un po’ su questo aspetto e rendere le donne più emancipate di quanto fossero state realmente, ma al tempo stesso infilarci dentro retaggi del passato da cui viene fuori una strana morale con un piede nel passato e uno nel futuro, situazioni in divenire con tradizionalisti schierati da una parte e innovatori dall’altra, esasperando le contrapposizioni.
Naturalmente, più ci si discosta da uno scenario reale e più diventa difficile creare strutture complesse e credibili al tempo stesso. Per esempio, se guardo in TV Game of Thrones, non posso fare a meno di chiedermi di che mondo stiamo parlando, visto che ci sono umani, gatti, cavalli, galline, piccioni, ma anche draghi e giganti e umanoidi che di umano hanno davvero poco come i White Walkers. Da una parte sembrerebbe la Terra, ma il profilo dei continenti è parecchio diverso, quindi…? Boh. Forse Martin non si è posto il problema?
Un paio di regolette di buon senso per non complicarsi la vita con il world building sono 1) partire da una situazione nota e cambiare un dettaglio alla volta, considerando gli effetti “a catena” di ciascun cambiamento prima di introdurne uno nuovo 2) Non esagerare con scenari troppo lontani dalla nostra esperienza. Tanto di cappello a un autore che riuscisse a farci appassionare a una storia di creature gassose che fluttuano in qualche pianeta di tipo gioviano in un altro sistema solare e vivono in eterno, ma è davvero molto molto difficile coinvolgere il lettore con qualcosa che proprio non ha nulla a che fare con l’esperienza umana, a meno di non umanizzarla.
Author
@Michele
Non c’è legame tra prima persona e singolo punto di vista, si può fare a piacimento. Ci sono stati da sempre romanzi con più punti di vista in prima persona (es: Il libro dei teschi / vacanze nel deserto di Silverberg, quattro punti di vista in prima persona che si alternano i capitoli) come sono esistiti anche romanzi in terza persona con un solo punto di vista per tutta la storia.
Una domanda per Alessandro. Cosa ne pensi della premessa drammaturgica? Per scrivere il romanzo di Caligo hai iniziato da essa? se si, qual’è?.
Secondo te ci può essere una bella storia senza una interessante premessa drammaturgica?
Ovviemante la domanda la giro anche al duca.
grazie. 🙂
Author
La premessa è un modo facile e chiaro per l’autore per valutare la coerenza della propria opera. Ha un difetto, come tutti gli strumenti che richiedono ragionamento per applicarli: in mano a sceneggiatori/autori gonzi, diventa una porcata che “forza” la mano dei personaggi al solo fine di dimostrare ciò che si vuole dimostrare.
Tutto l’opposto della premessa così ben spiegata da Lajos Egri in L’arte della scrittura drammaturgica: la premessa deve solo indirizzare le scelte che devono nascere come conseguenze obbligate della caratterizzazione del personaggio e degli eventi della storia, secondo il principio di Aristotele che ogni scena deve essere causata logicamente da quella che la precede.
Ci sono grandissimi esperti di sceneggiatura, come Howard (quello di Lezioni di sceneggiatura), che sconsigliano la premessa tradizionale proprio perché abituati a vedere che tantissimi sceneggiatori alle prime armi sono totalmente incapaci di gestirla senza rovinare storia e personaggi.
Allo stesso tempo, però, spiegano allo sceneggiatore che deve avere ben chiaro il tema della storia e cosa vogliono comunicare… e se non è questo, in soldoni, senza la formulazione causa-effetto alla Egri, proprio il concetto di “premessa” non so cosa sia. 🙂
Un concetto esce dalla porta e torna dalla finestra.
Passando al manuale di Dara Marks, che non fa uso esplicito della premessa in stile Egri, ecco che però abbiamo Tema e Punto di vista tematico… e quest’ultimo non è altro che la premessa in stile Egri, usata proprio per valutare la coerenza di tutti gli altri elementi, solo che la Marks non obbliga a formularla nel modo rigoroso di Egri con causa-effetto (e quindi può risultare più confusa o meno facile da applicare poi in concreto).
Quindi, ricapitolando, è fondamentale la “premessa” formulata nel modo tradizionale? No. Ma guarda caso le soluzioni alternative proposte ci somigliano moltissimo.
A luglio ci sarà un articolo sulla premessa qui su Vaporteppa. 😉
Ciao Beppe,
no, non ho pensato a una premessa drammaturgica nel momento in cui mi sono messo a scrivere. Tante volte la premessa è chiara nella mente dell’autore fin dall’inizio, altre volte invece emerge durante la stesura della storia, magari inconsciamente. Nel secondo caso, una volta arrivati in fondo alla prima stesura è utile chiedersi quale sia la premessa, e una volta individuata lavorare all’indietro per rafforzarla. In Caligo la premessa ha molto a che fare con “fidarsi degli altri porta alla rovina” Vs. “prendere in mano la propria vita porta alla salvezza”, ricordando che la premessa non è una verità assoluta, ma una cosa valida una tantum all’interno della singola storia (o serie). Come ti dicevo, non avevo quest’idea quando mi sono messo a scrivere, ma il “fare di testa propria” è probabilmente un tema a me caro, e così la premessa è uscita fuori da sola, tanto nel terzo atto finalmente in forma positiva quanto nei precedenti fallimenti della protagonista, in forma negata.
Cari Duca e Alessandro,
siamo, oramai, nel 2017 e il seguito di Caligo non si vede. C’e’ stato qualche problema? Nel post di presentazione su Baionette il Duca diceva di una possibile pubblicazione fine 2014-inizio 2015. Se e’ colpa di Alessandro che vuol fare il lavativo, ovviamente, sei liberissimo di “percuoterlo molto rudemente” fino al completamento.
Author
Come dicevano i sumeri: “gli studenti hanno le orecchie sulla schiena”, teoria che io condivido da tempo. Sfortunatamente anche percuoterlo per ora non è servito… 🙁