Qualsiasi scelta sarà sbagliata (o forse no)

Nel precedente articolo abbiamo parlato del fallimento e del conflitto come elementi che stanno alla base della costruzione di una storia efficace.

Oggi torniamo alla scelte che il personaggio fa per raggiungere l’obbiettivo.
Le scelte sono fondamentali, come detto, per non farlo apparire passivo, per fare in modo che il suo agire incida sul mondo della narrazione, e più sono forti e chiare le conseguenze, più il lettore sarà “preoccupato” quando il personaggio prenderà una decisione.
Se il lettore si affeziona a diversi personaggi e se ognuno di questi, per il proprio bene (e magari in buona fede), prende decisioni che è evidente causeranno danni agli altri, meglio ancora. Il lettore sarà sempre sulle spine e ogni ipotetico trionfo di uno di loro gli farà subito temere le ripercussioni sugli altri. Qualcosa di simile accade nella serie di romanzi di successo Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George Martin.

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Non temete, anche questa volta citeremo greci morti da più di 2000 anni. Vero, Euripide?

Ora domandiamoci come le scelte del personaggio si ricolleghino al discorso sulla natura retorica della Narrativa. Booth ce lo dice: la parola chiave è morale. La scelta del personaggio deve essere morale. Ma cosa significa morale? Booth venne accusato, dopo la prima edizione di Rhetoric of Fiction, di intendere la scelta perbenista, moraleggiante in senso negativo. Non intendeva questo e infatti chi lo accusava dimostrò semplicemente di non aver letto con attenzione.
Booth nella seconda edizione dell’opera dedicò un paio di pagine aggiuntive per chiarire meglio la questione anche a quei suoi colleghi più distratti che gli attribuivano concetti che non aveva espresso.

La parola “morale” non indica l’osservanza o meno dei dieci comandamenti o di chissà quali norme inviolabili di comportamento. La parola “morale” è stata scelta da Booth perché è l’unica che permetta, in inglese perlomeno, di trasmettere il senso dell’originale greco: la scelta giusta.
Ma giusta in che senso? Giusta nel senso che il lettore DEVE ritenere che sia la scelta che il protagonista dovrà fare. E dove sta la retorica? Semplice: non vi è nessun vanto nel convincere i lettori che salvare una ragazza dagli stupratori in un vicolo sia morale, né vi è nel far pensare ai lettori che aiutare una vecchietta a salire le scale sia morale… è troppo facile! Ma quando allora vi è vanto? Quando si fa in modo che i lettori VOGLIANO che il personaggio faccia qualcosa che solitamente sarebbe considerato negativo, malvagio, magari pure criminale.

È morale (e retoricamente interessante) quando il personaggio poliziotto “duro e capace” (tipo il detective Vic Mackey di The Shield) sceglie, convintissimo lui e convintissimi i lettori che hanno vissuto tutta la vicenda tramite il suo filtro distorto, di inserire sacchetti di eroina nella casa di un presunto spacciatore per incastrarlo.
Morale è quando i lettori sono convinti (stesso meccanismo) che il poliziotto decida di torturare un tizio, con il consenso silenzioso dei colleghi che lo lasciano solo, perché è chiaro che lui è il pedofilo e solo pestandolo sputerà fuori dove ha nascosto la bambina rapita. Di certo il pedofilo non tornerebbe nel nasconsiglio per timore di essere incastrato dalla polizia… e si salverebbe lasciando morire la bambina di stenti, sepolta viva in chissà quale scantinato.

Il detective Vic Mackey, un personaggino delicato come il suo aspetto suggerisce.

Il detective Vic Mackey, un personaggino delicato come il suo aspetto suggerisce.

Questo però non vuole dire che bisogna per forza convincere il lettore che il male è bene solo per esercizio retorico. Si può fare qualcosa di più interessante, di più potente: ribaltare di nuovo il tavolo.
L’apice, la vera potenza retorica della narrativa, sta nel guidare il lettore con soddisfazione nel desiderare e accettare il male… e poi sbattergli in faccia l’errore. Il che permette pure un ottimo modo di ottenere una svolta narrativa costruita senza veri colpi di scena, perché semplicemente si raccoglie il male che si è seminato scambiandolo per il bene. Parleremo in futuro di questo concetto, dell’hamartia aristotelica.

Torniamo all’esempio del poliziotto: alla fine il presunto spacciatore era innocente, ma finirà in carcere lo stesso. Ulteriore scelta morale: il protagonista poliziotto invece di confessare il proprio crimine tace e sacrifica, per il bene superiore della sua lotta contro il crimine, l’innocente, perché se confessasse salvandolo tutti i suoi casi precedenti verrebbero riesaminati e centinaia di criminali tornerebbero liberi. Questa se ricordo giusto c’era proprio nel telefilm The Shield.

Oppure il poliziotto può scoprire che il presunto pedofilo alla fine non era un pedofilo e si trova il vero colpevole. Ha torturato il presunto pedofilo? Lo ha ucciso settimane dopo, convinto che abbia fatto morire la bambina? Lo ha messo alla gogna in qualche forma anonima, causandogli il divorzio e la perdita del lavoro come insegnante elementare? Oppure lo ha fatto finire in galera per un breve periodo incastrandolo per altro e poi ha fatto girare la voce tra i carcerati che fosse un pedofilo – e magari ha messo pure una taglia tramite un amico in carcere – per farlo assassinare? Cosa succederà quando scoprirà di aver fatto morire un innocente? Evolverà in meglio, servirà a cambiarlo? O lo colpirà peggiorandone il carattere, rendendolo ancora più duro e disumano, radicalizzandolo nel proprio percorso tragico di errori (propri) e sofferenze (causate)?

Sì, Oreste, lo sappiamo che a te il dilemma tragico di Vic sembra una cazzatina.

Sì, Oreste, lo sappiamo che a te il dilemma tragico di Vic sembra una cazzatina. Tra poco parliamo anche di te.

Notate la difficoltà di quelle scelte.
Il lettore è preoccupato assieme al personaggio per le conseguenze che potrebbero avere.
Le scelte veramente difficili sono le migliori e sono i cosiddetti “dilemmi tragici”. Il dilemma tragico è tale se il protagonista dovrà scegliere qualcosa e qualsiasi cosa sceglierà causerà un grave danno (dal proprio punto di vista). Non tanto il male minore, più qualcosa di simile a mali equivalenti e non potrà rifiutare la scelta (o il rifiuto stesso sarà una scelta dannosa pure lui), non ci sono scappatoie.

La scelta non era tragica quando il poliziotto mette le dosi di eroina nella casa del presunto spacciatore, ma lo diventa quando deve scegliere di continuare a mentire, e mandare così in galera un innocente, pur di non finire lui in galera. Magari il suo capitano ha intuito qualcosa e sta cercando di dargli una via di fuga, insabbiando tutto e salvando capra e cavoli, evitando poi la galera al tizio tramite lo smarrimento di qualche carta o una cavillosa irregolarità inventata nella perquisizione… ma nella migliore delle ipotesi, se non in prigione, il poliziotto avrà la carriera distrutta. Cosa sceglierà, il male per l’innocente o il male per sé? La sua vita non sarà più la stessa: da eroe della lotta al crimine con metodi “pericolosi” a malvagio puro e semplice.

Non è un dilemma tragico se non fa soffrire in qualche modo il personaggio.
È un dilemma tragico se in piena invasione degli zombie che hanno sfondato finestre e porta, due compagni del protagonista lottano con i morti e lui può intervenire per salvarne solo uno e sacrificare così l’altro. Questo dilemma è presente nel primo episodio del videogioco Walking Dead e ha ripercussioni grosse, tangibili e chiare sui due episodi successivi, visto che il personaggio che si salverà continuerà a interagire, in modo molto diverso in un caso o nell’altro, con il protagonista.

stalin-reviews-the-lord-of-the-rings_o_1557337Non è un dilemma tragico se mi offrono 10.000 euro per ogni volta che faranno saltare una supernova dall’altra parte dell’universo, cancellando interi sistemi abitati da civiltà aliene: non li conosco, non me ne frega nulla, datemi i 10.000 euro che invece mi fanno comodo. Come nella frase attribuita a Stalin: un morto è una tragedia, un milione sono statistica.

Un dilemma tragico famoso è quello di Agamennone in Ifigenia in Aulide di Euripide: dovrà sacrificare sua figlia per soddisfare Artemide e salvare il proprio esercito. O l’esercito o la propria figlia: non può salvare entrambi. La decisione per Agamennone è tragica e due Agamennone si confrontano: è più importante Agamennone-padre o Agamennone-condottiero? Conoscendolo, è evidente che sceglierà la seconda. E la sceglie con fin troppa facilità, togliendo tragicità alla questione: invece di disperarsi per l’ingiustizia di ciò che è costretto a sacrificare, si abbandona quasi con ferocia all’idea del sacrificio come qualcosa di “giusto” (ma per lo spettatore la scelta rimane tragica, anche se Agamennone è un po’ stronzo e la giustifica). Al lieto fine per la povera Ifigenia ci pensano poi gli Dei, come ricorderete.

E il caso di Oreste, figlio di Agamennone? La norma, accettata dagli Dei stessi, impone che il figlio debba onorare i genitori e questo impone che non possa far loro del male e che debba vendicarli. Ma quando è sua madre, Clitennestra, che ha ucciso suo padre, Agamennone, cosa può fare Oreste? Sia agendo uccidendo la madre sia rifiutando di vendicare suo padre, avrà disatteso il proprio dovere di onorare i genitori!
Cosa sceglierà l’eroe tragico? Ucciderà la madre e sfiderà la terribile vendetta delle Erinni, dimostrandoci così quanto era grande l’amore per (quello stronzo di) suo padre?

Pensiamo anche solo al dilemma finale in Abaddon di Giuseppe Menconi. No, non farò spoiler qui, basta dire questo: fidarsi del male e divenire il male per salvare la propria famiglia, condannandone molte altre? Questo elemento di scelta è stato fondamentale per il coronare il gradimento dell’opera, nel parere di diversi lettori.

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Un’astronave sospesa da decenni su San Francisco. Un ufficiale che ha perso la capacità di combattere. Una missione mortale.

In conclusione…

  • Morale è convincere i lettori che il male sia la scelta migliore.
  • Morale è far loro desiderare come giusti soprusi e delitti, magari la tirannia.
  • Morale è far loro desiderare il male minore, per poi scoprire lentamente che è quello peggiore.
  • E l’apice di una grande retorica è poi farli pentire per la propria grettezza e cecità.

Sbattere in faccia al lettore il lato oscuro dell’animo umano, farglielo abbracciare e poi farlo pentire di quanto sia stato sciocco e meschino, nonostante si considerasse fino a ora una persona “buona”.

Questo se si vuole fare narrativa che porta il dramma della scelta al suo massimo potenziale, letteratura che segna chi la legge, ma nulla vieta di pensare storie più semplici dove il Bene e il Male (o i diversi “livelli di grigio”) sono separati in modo netto e il lettore non è costretto a guardare nell’abisso che sta dentro a ogni uomo.
La distinzione chiara è tipica dei techno-thriller – settore che smuove quantità enormi di soldi, si pensi a Clancy – o nella fantascienza militare. In realtà in buona parte della narrativa, anche molto “seria”, è normale che sia così semplificato, o poco ci manca: la complessità di cui abbiamo parlato proprio perché difficile da ottenere spesso non viene nemmeno tentata dagli autori. Ma nulla vieta a voi di provarci! 🙂

10 comments

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    • Michele on 09/07/2015 at 16:07
    • Reply

    Gran bel articolo! Per riassumere i miei gusti in fatto di scelte credo che la frase: il fine giustifica i mezzi sia perfetta. Però mi affascina anche la figura del malvagio stile signore del male. L’idea del male fine a se stesso mi intriga assai XD

    • Gwenelan on 12/07/2015 at 22:52
    • Reply

    Grazie mille del bellissimo articolo, che parla di un punto su cui spesso si discute. Ho una domanda sulla “scelta giusta”: seguendo l’iter del, vi cito,

    guidare il lettore con soddisfazione nel desiderare e accettare il male… e poi sbattergli in faccia l’errore

    non si rischia di essere prevedibili e anche un po’ “moralmente scontati”? A me capita spesso, in libri, film e quant’altro, di trovare la situazione in cui Protagonista deve compiere la Scelta X che in quelle circostanze sembra giusta (nell’esempio dell’articolo, torturare il pedofilo) e di pensare “Ecco, adesso lo farà, ma siccome la tortura è sbagliata e kattiva, sicuramente sarà la cosa sbagliata e pagherà le conseguenze!”, e puntualmente è quello che succede. Col risultato che io non penso di essere blutta e kattiva (se quello fosse stato il vero pedofilo non ci sarebbe stato nessun problema, per restare nell’esempio), ma mi annoio.
    E’ la retorica di queste storie che fa cilecca? Sono le situazioni scontate? O qualcos’altro che non vedo? Come si evita questo problema?
    Grazie dell’eventuale risposta :)!

  1. No, non ha senso pensare che qualcosa di teorico possa essere scontato.
    Se hai deciso di essere moralmente scontato lo puoi essere direttamente dimostrando A, senza fingere di dimostrare prima B e poi andando su A. Il discorso non ha senso: sei moralmente scontato se sei moralmente scontato, altrimenti no. Non riguarda il fatto di costruire o meno un inganno prima.

    In fondo hai solo due scelte: dimostrare A, o dimostrare prima A e poi negarlo. Fine.
    Sono solo due e riassumono l’esistenza umana: o è giusto subito, oppure ci si è sbagliati e dopo si capisce che non era giusto il primo tentativo (o ci si sbaglia e non si capisce l’errore: eroe tragico, di solito, ma è anche la condizione di gran parte dell’umanità rigettare l’errore in eterno). 🙂
    In che modo un singolo passaggio diretto (direttamente A come soluzione giusta) debba essere meno scontato di un inganno predeterminato a danno dello spettatore (ti faccio credere sia A, poi ti svelo l’inganno ed è B) per confonderlo su cosa sia giusto o sbagliato, ho difficoltà a comprenderlo.

    Poche opzioni: A o B. Che problema c’è? L’esistenza umana è scontata e quasi tutta la narrativa esistente si fonda su un paio di regole costruttive. Ciò che conta sono solo i dettagli concreti con cui si realizza, ovvero l’opera in sé. Solo le opere sono giudicabili per verificare errori di realizzazione, ovvero quanto riescono a essere interessanti pur basandosi su poche regole scontate e riproponendo cose già viste fin dal tempo di Aristotele (eppure non ci facciamo problemi a farcele piacere pur essendo basate solo su elementi scontati, altrimenti non guarderemmo serie TV, film ecc.).

    Tutto in teoria è scontato, difatti non ha senso porsi proprio la domanda. Fai un film coi nazisti cattivi? Scontato. Li fai buoni? Solito ribaltamento scontato. Fai che buoni e cattivi non sono ben delineati, tutti sono un po’ e un po’? Scontato, banale e visto mille volte.
    Tutto è scontato se lo analizzi a livello teorico, senza entrare negli esatti dettagli delle scene, in quanto è “verosimile”… e dopo decenni vedendo la vita, uno ormai dovrebbe trovarla scontata. Ciò che conta è solo come nell’esatto dettaglio la si racconta. 🙂

    • Gwenelan on 13/07/2015 at 12:10
    • Reply

    Ho capito, quindi il problema delle storie a cui mi riferivo era specifico di quelle lì. Grazie della risposta :).

  2. Se non funziona, per definizione non è eseguita correttamente la teoria.
    Per esempio qui è evidente il problema:

    A me capita spesso, in libri, film e quant’altro, di trovare la situazione in cui Protagonista deve compiere la Scelta X che in quelle circostanze sembra giusta (nell’esempio dell’articolo, torturare il pedofilo) e di pensare “Ecco, adesso lo farà, ma siccome la tortura è sbagliata e kattiva, sicuramente sarà la cosa sbagliata e pagherà le conseguenze!”, e puntualmente è quello che succede.

    Come è possibile che sia stato rispettato il criterio di convincerti che sia la cosa giusta, se pensi che creerà gravi problemi ben peggiori? È un nonsense. La costruzione prevede tra i suoi prerequisiti il convincimento della tesi A prima di negarla: se mi dici che non c’è stato il convincimento di A è ovvio che non è stata ottenuto il prerequisito e quindi non funziona la negazione non-A.

    Al massimo puoi sospettare possa creare problemi, ma in narrativa è la REGOLA che ogni evento (in particolare nella prima metà della storia) possa (meglio: debba) SEMPRE portare a problemi. Edipo Re è costruito così: certo che Edipo ha fatto bene ad ammazzare quel malnato che lo minaccia… e ops, era suo padre! Beh, ma che un omicidio potesse portare brutte conseguenze in fondo era facile sospettarlo, no? È l’elemento di “ironia drammatica” avere preoccupazioni maggiori del personaggio stesso perché si sospetta (avendo un distacco, o altre informazioni, che il protagonista non ha) che le cose andranno peggio, ed è un elemento fondamentale della drammaturgia, della narrativa scritta e anche del cinema. I capolavori dal tempo dei Greci a oggi sono costruiti sull’ironia drammatica.

    Nel caso specifico coi poliziotti, lo spettatore per decine di episodi vede abusi di potere ecc. della polizia e sono sempre giusti (sono il male minore), senza alcuna conseguenza di rilievo e in generale sono l’unico modo per contrastare il crimine in un sistema legale disfunzionale. Vuoi i cattivi in galera? Abusa del tuo potere. Vuoi i cattivi liberi e ricchi? Fai il bravo poliziotto legalista.
    Se mi dici che ogni volta pensavi che doveva succede qualcosa di brutto e ogni volta venivi smentita, in pratica a ogni episodio dovevi pensare “ah, non avevo capito niente”, e dopo decine e decine di episodi così finalmente, una singola volta, sparando nel mucchio ci hai azzeccato e quindi ignori il fatto che fino a quel momento era sempre accaduto l’opposto di ciò che ti aspettavi… beh, questo non è colpa dell’opera.
    Se invece l’opera non costruiva tutta quella base di eventi in cui l’abuso di potere NON causa alcun problema, in cui è il male minore e funziona alla grande, allora è colpa dell’opera perché manca l’affermazione della tesi A prima della sua negazione.

    L’opera non può farci niente se uno invece di seguirla pensa ad altro, e invece di adattarsi agli avvenimenti continua a pensare “no, succederà qualcosa di brutto perché il Male è kattivo e il Bene trionfa” per decine di episodi pur di non accettare che no, quel risultato non c’è mai e i poliziotti kattivi invece se la cavano in qualche modo ogni volta. Possiamo sperare che succeda, per prendere due piccioni con una fava, ma se lo pretendiamo non va bene (perlomeno fino a quando gli abusi diverranno tanto grossi e il modo di cavarsela così rischioso che potremo sospettare che ormai, essendo più criminali che poliziotti, finiranno male come finivano male i criminali che loro catturavano). L’opera può solo fare del proprio meglio per farsi seguire, ma se c’è un rifiuto “morale” legato a una totale incompatibilità tra lettore/spettatore e opera, allora le cose andranno male per forza. Parleremo in futuro dei problemi di incompatibilità opera-lettore.

    Qui il problema, se lo spettatore pretende un certo risultato, è che lo spettatore stesso è “moralmente scontato” per cui continua a giudicare l’opera secondo pregiudizi morale alieni all’opera stessa nella speranza, in un lontano futuro, di indovinarci. Con più o meno la stessa % di successo a prevedere degli astrologi, e giudicando poi l’intera l’opera retroattivamente come fanno gli astrologi con le loro analisi in cui cercano casi comodi con cui sostenere a posteriori le loro analisi. 🙂

    Fai un semplice test: davvero leggendo The Iron Dragon’s Daughter di Swanwick un lettore dovrebbe passare 3/4 dell’opera mugugnando interiormente che era evidentissimo (secondo nessuna base, non c’erano elementi così evidenti per dirlo) che Jane rifiutava la verità e sceglieva sempre la soluzione più comoda a danno degli altri, perché il lettore si aspettava per forza che l’opera volesse poi rinfacciargli di essere caduto nello stesso inganno in cui Jane stessa viveva autoconvincendosene per accettare le proprie azioni?
    The Iron Dragon’s Daughter è un esempio di tesi A di cui convincere il lettore seguito dallo spiattellamento della tesi B (o non-A, cambiamo solo il modo di chiamarla) opposta.

    E se poi l’opera non lo avesse fatto? Come non lo fanno tante opere, che vanno dritte senza ingannare il lettore? Tra The Iron Dragon’s Daughter e questo presunto lettore con pregiudizi ossessivi su cosa le opere debbano obbligatoriamente dire, direi che è il secondo a essere “moralmente scontato”.

    • Gwenelan on 15/07/2015 at 20:29
    • Reply

    Grazie dell’ulteriore spiegazione; in verità, e alquanto “cretinamente”, è questa parte che io “saltavo”:

    La costruzione prevede tra i suoi prerequisiti il convincimento della tesi A prima di negarla: se mi dici che non c’è stato il convincimento di A è ovvio che non è stata ottenuto il prerequisito e quindi non funziona la negazione non-A.

    Ora, ovviamente non posso dire con assoluta precisione che sia così per il 100% delle storie a cui mi riferivo, ma nella maggior parte di quelle che ricordo non c’è la costruzione precedente al capovolgimento di A (per fare l’esempio coi poliziotti, è come se nell’ep 1 avessimo la scena del pedofilo descritta nell’articolo, con i poliziotti tutti convinti che quello sia il metodo giusto, senza altre scene precedenti che mostrino che il metodo che stanno utilizzando effettivamente funziona per sbattere in galera i criminali).
    Io sbagliavo perché equiparavo la convinzione dei personaggi alla mia, ossia “loro sono convinti che sia giusto così” = “anche io spettatrice sono convinta o dovrei esserlo” (nella mia mente = “io devo esser convinta della tesi A”), mentre è ovvio che può non essere così per vari motivi, voluti o non voluti dall’autore dell’opera. E adesso, probably perché ho letto la spiegazione, non capisco come ho fatto a confondere le due cose ^^’.
    Grazie ancora del tempo speso a chiarirmi la faccenda :).

  3. Avevo avuto il sospetto fosse quello il problema, il salto del prerequisito, ma non ero sicuro. Nei prossimi articoli starò più attento che si capisca meglio tutto, soprattutto riguardo ciò che credono i personaggi e ciò che dovremmo far credere al lettore. Forse sono stato troppo sintetico nelle spiegazioni.
    Grazie!

    • Gwenelan on 20/07/2015 at 21:07
    • Reply

    Prego, grazie a te (lei? voi?) per gli utilissimi articoli e gli approfondimenti nei commenti!

    • MattoMatteo on 16/02/2016 at 11:27
    • Reply

    Prego, grazie a te (lei? voi?) per gli utilissimi articoli e gli approfondimenti nei commenti!

    Tranquillo Gwnwlan, il Duca è una persona molto alla mano; gli si può tranquillamente dare del tu (purchè lo si faccia con rispetto) senza offenderlo.

    Duca, una domanda: ma questo “metodo” non rischia di eliminare alla base la possibilità di un finale felice?
    Non pretendo un “alla fine vissero tutti felici e contenti“, ma un “alla fine ottennero un pò di felicità, perchè il bene era stato maggiore del male” non fà poi così schifo (anche perchè è quello a cui, alla fin fine, aspirano tutti… imho).

  4. Duca, una domanda: ma questo “metodo” non rischia di eliminare alla base la possibilità di un finale felice?

    Non riguarda le storie. Espresso in quel modo non è nemmeno un concetto drammaturgico, perché non è nemmeno una premessa costruita secondo causa precisa – effetto.
    Sembra più un’indicazione generale di tono e di selezione delle premesse per le singole storie da collegare tra loro.

    Le solite regole su come si gestisce il lieto fine si applicano anche qui, ma volere quel tipo di tono nelle storie potrebbe rendere preferibile un mix tra storie con lieto fine alla Shakespeare (per l’ambientazione, di cui i personaggi vittima con il loro sacrificio/tragedia permettono un miglioramento) e storie con lieto fine “classico” (il personaggio ottiene almeno in parte c’è che vuole, l’ambientazione rimane schifosa come prima se così piace).

    Il bilanciamento tra cose andate bene e cose andate male è fondamentale in ogni storia, sia dove il personaggio vince sia dove il suo fallimento porta alla tragedia. Senza che entrambe le componenti siano presenti, la storia non suonerà credibile al lettore: in una tragedia serve un po’ di bene (metodo di Shakespeare: l’ambientazione starà meglio) e in una storia con finale buono serve un po’ di male (non tutto è andato come doveva a tutti i “buoni”, alla fine la storia mostra aspetti agrodolci).

    Ne parleremo in futuro.

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